Nell’Europa di un tempo, quella delle grandi selve e dei grandi spazi incolti, due sono le fiere a contenderne all’uomo il pieno dominio: il lupo, e l’orso. Ma se il lupo rappresenta di solito una malvagità cupa e un po’ stolida, comunque inavvicinabile, l’orso della tradizione popolare europea è quasi un uomo mancato, un uomo a metà, una parodia d’uomo. Ben lo sapevano gli antichi slavi, che sulla base di un’attribuzione antropomorfizzante e un po’ fiabesca hanno chiamato l’orso medved, il “mangia-miele”. Onnivoro, all’occasione bipede, giocherellone, goloso e improvvisamente iracondo come un òm selvadegh o un ragazzone un po’ scemo, l’orso appare come una controfigura selvatica dell’uomo, essendo la diretta dimostrazione in sede zoologica, nel sapere popolare di tutto il mondo, della continuità di fondo che, al di là delle molte differenze, esiste nei due sensi tra l’essere animale e l’essere uomo.
Ben lo sanno i pellegrini di San Romedio, che leggono all’ingresso del santuario questa massima moraleggiante, che dice infatti la stessa cosa: “Fatto stupendo, o cosa strana! L’orso, la belva si fa umana. / Stupor maggiore che l’uomo nato, in belva cerchi esser cangiato”.
Non vi è quindi da stupirsi se in quel mondo alla rovescia, in quella messinscena di valori all’incontrario, che è in tutta Europa il Carnevale, l’orso sia una comparsa d’eccezione, un personaggio, importante, talora un protagonista. Così è, ad esempio, in tutti i Balcani, dove l’orso tirato da una catena dal suo domatore, che nell’altra mano impugna l’immancabile gadulka e l’archetto, la piccola lira a tre corde per farlo ballare.
Così, per l’esibizione nel contesto carnevalesco, e in quello affine delle fiere, dei mercati e delle feste popolari, gli orsi venivano catturati anche vivi, meglio se da piccoli, strappandoli alla madre che veniva non di rado uccisa. In una valle dei Pirenei sul versante francese, non lontano da Lourdes, la valle del Garbet, gli abitanti, avuta l’idea da certi domatori d’orso boemi o zingari che si erano spinti fin là, si specializzarono in questo genere di catture, e cominciarono a girare l’Europa e anche l’America in proprio, andando ad esibire gli orsi, dapprima catturati in montagna e poi, dopo la quasi estinzione di questi sulle montagne di casa, reperiti alla meglio sul mercato algerino. Così, come il Tesino è la valle dei venditori di stampe e la Rendena la valle dei moléta, la valle del Garbet divenne nella leggenda popolare “la vallée des montreurs d’ours”, e le gesta anche d’oltreoceano di questi domatori improvvisati sono ormai oggetto di studi, ricerche, e di recente anche di un film, presentato con successo qualche anno fa al TrentoFilmFestival.
Duro, e molto crudele, il tirocinio musicale dei giovani orsi che – a quanto si racconta – venivano fatti ballare su una piastra rovente al suono di un tamburo, onde stimolarne per sempre un riflesso condizionato, che li avrebbe spinti alla danza ogniqualvolta ne avessero udito il rullare. Ma a poco a poco, vista la rapida riduzione delle popolazioni ursine un po’ ovunque in Europa, di orsi veri tra i baracconi delle fiere se ne videro sempre di meno e l’orso divenne quello che è oggi a carnevale, e cioè un personaggio in costume, una comparsa.
Così lo troviamo dalla Croazia alla Bulgaria, in tutti i Balcani, accompagnato dal suo fedele domatore imberrettato, vero antagonista clownesco con il quale ingaggia dei furiosi corpo a corpo seguito da altrettanto improvvise rappacificazioni: una coppia fissa del codazzo finale della processione carnevalesca, quello più buffonesco e sguaiato, insieme ad altri animali quali il cammello o l’immancabile cheval-jupon, ma anche a un’assortita compagnia di zingari veri e finti, di morti-viventi, di personaggi truculenti e di ogni genere di transgender.
Ma troviamo l’orso anche nell’Europa occidentale, e quantomeno dalla Navarra al Piemonte occitano. A Ituren in Navarra, in contesto culturale a fondo basco, è proprio un orso a condurre la processione degli Yoaldunak, l’antico gregge sacrale degli uomini-pecora che apre scampanando la processione del carnevale. Paradossalmente, come notava Cesare Poppi, l’orso (in basco artz) diviene così un pastore (arztain) come se a carnevale lo sterminatore dei greggi ne diventasse paradossalmente il custode: ancora, per il nostro orso, un’inversione di ruolo.
Dalla Navarra spagnola portiamoci nella Catalogna francese, sul versante settentrionale dei Pirenei. Qui l’orso è il vero protagonista del Carnevale che consiste, appunto, in una caccia all’orso. Nel villaggio di Arles-sur-Tech, per esempio, nel pomeriggio del sabato grasso, si sparge la notizia che l’orso ha rapito la bella Rosetta. Tutto il paese si lancia all’inseguimento del plantigrado, ma non riesce a evitare che la procace contadina (che è, manco a dirlo, un giovanotto travestito) venga stuprata in pubblico. Segue la rivincita dei paesani: un bravo cacciatore si fa avanti per catturare l’orso e riconquistare la Rosetta. Così, dopo qualche schermaglia dall’esito piuttosto scontato, l’orso verrà affrontato, bastonato, legato, ridotto alla ragione e alla fine fatto accomodare su una sedia, dove subirà, a cura del cacciatore divenuto barbiere, una rasatura con tanto di sapone e pennello: sorta di castrazione simbolica che ne sancisce l’avvenuta domesticazione.
Facciamo ancora un passo verso est, nel Piemonte occitano, e di cacce all’orso ne troviamo ancora molte, come ha dimostrato con grande dovizia di particolari l’antropologo Piercarlo Grimaldi. Qui però notiamo un fatto singolare: e cioè che il personaggio detto “orso”, e oggetto di una caccia in tutto e per tutto analoga a quella cui abbiamo assistito sui Pirenei, in realtà non assomiglia affatto a un orso vero, ma è una creatura di tutt’altro genere. A Valdieri nella montagna cuneese, per esempio, il cosiddetto “orso” è un portentoso uomo di paglia, ricoperto dalla testa ai piedi, fatto salvo il viso tutto nero di nerofumo, di una lunghissima treccia di paglia di segale, che lo avvolge tutto, conferendogli l’aspetto proprio di un vero covone semovente, o di uno spaventapasseri ambulante. Qualcuno ha suggerito che questo travestimento del tutto incongruo alla rappresentazione di un orso sia dovuto alla difficoltà intrinseca del reperirsi locale dei materiali (pelli, pelo, grugno…) atti una rappresentazione plausibile del plantigrado. A mio avviso, però, la spiegazione è tutt’altra, e ci impone una breve digressione.
Scrive infatti James Frazer, nella grande impareggiabile sua opera Il Ramo d’Oro, che fin dai tempi più remoti era uso degli antichi mietitori l’astenersi dal taglio dell’ultimo covone, che rimaneva così ritto in mezzo al campo a titolo di simulacro fino al completamento della raccolta, per essere oggetto in un tempo differito di un taglio ritualizzato o addirittura solenne. Si supponeva infatti che in quest’ultimo covone risiedesse lo spirito del grano, cioè lo spirito del raccolto, a cui si dava spesso nell’immaginario una forma animale: lupo, volpe, cinghiale, cervo, cigno, cicogna e naturalmente anche orso. Perché tutto questo? In origine, io credo, per conferire alla mietitura l’importanza sacrificale di una vera caccia, e al suo prodotto, il grano, uno status alimentare e simbolico non inferiore a quello della carne: una trovata non banale, io credo, per dei cacciatori neolitici risoltisi, e certo non sempre di buon grado, a transitare piuttosto repentinamente dalle grandi cacce a una dieta di carboidrati, certo meno adatta, almeno all’apparenza, a soddisfare appetiti preistorici. Con una importante differenza a favore del cibo di grano, però: mentre l’orso della caccia, una volta ucciso, è morto per sempre – salvo il ricomparire in quanto spirito nei mondi immateriali dello sciamanesimo – l’orso di paglia muore e risorge dal proprio seme, secondo quella elementare mistica di morte e resurrezione che vediamo infatti prender forma fin dalle origini nel mondo agrario del vicino oriente, intorno alla figura mistica di un dio – Attis, Osiride, Tammuz, Adone, fino ad Orfeo, per non fare altri nomi a noi più familiari – di cui il mito racconta l’esser stato capace, come il grano, di risorgere dopo la morte.
In questa prospettiva, l’orso di paglia, l’orso di Valdieri non è una sottospecie, non è una finzione, ma ci riporta al cuore stesso del percorso magico-religioso dell’umanità a partire dal neolitico e l’orso stesso, eterna figura di transizione tra il mondo animale e quello umano, diventa così in questa prospettiva un vero e proprio oggetto sacrificale, un quasi-dio.
Non a caso, il rito di Valdieri si conclude, come spesso avviene in questi casi, con il rogo pubblico di un pupazzo di paglia che è il perfetto simulacro dell’orso appena catturato e processato sulla pubblica piazza: arcaica anticipazione pagana, per il tramite del nostro antico mangia-miele, della scena del Golgota.
Tanto lontano ci conduce, se così vi piace, la storia dell’orso.
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“Uno spettro si aggira per l’Europa”… ed è, a sorpresa, quello del Carnevale, l’antico furfante mascherato che da tempo immemorabile con il bello e il brutto tempo, proprio al culmine dell’inverno, percorre le strade del nostro continente, in città come nei paesi e nelle campagne più remote e nei paesi di montagna più lontani e inaccessibili… Stupirà infatti chi guardi la carta geografica di questa o quella parte dell’Europa, la grande varietà di forme che il carnevale assume di volta in volta, nel giro di pochissimi chilometri. Così nel Trentino sulle Alpi centro-orientali, vicino al cuore delle Dolomiti, abbiamo un’impressionante varietà di carnevali anche molto diversi, dove figurano di volta in volta paurosi mascheroni scampananti, ieratici arlecchini biancovestiti e danzanti, oppure le buffonesche comparse di un passato contadino straccione, ribaldo e sboccato, in un vero e proprio caleidoscopio di costumi, di maschere, di suggestioni diverse.
Se però cambiamo l’obbiettivo, e allarghiamo il campo visuale fino a comprendere l’intero arco alpino e successivamente, per gradi, l’intero continente europeo, questa prima impressione di grande difformità nelle manifestazioni locali del carnevale si trasformerà in quella opposta, che mette in rilievo invece la sorprendente continuità delle forme del carnevale su un areale europeo di ampiezza continentale, che va dai Pirenei ai Balcani, passando per le Alpi, l’Italia peninsulare e insulare, la Mitteleuropa. Così, un po’ ovunque, e in particolare nelle località più remote di montagna o di campagna, dove le tradizioni hanno avuto un terreno più riparato per mantenersi sempre uguali a sé stesse, troviamo che il cosiddetto “carnevale” consiste in realtà in una processione rituale ben strutturata, con le sue fasi specifiche, i personaggi suoi propri, i suoi atti predeterminati.
Un po’ ovunque, per esempio, questo corteo assume la forma di un vero e proprio giro di questua, in cui le maschere, a tutta prima spaventose e invadenti, portano in realtà sulla porta delle case o dentro alle più minute frazioncine di un vicinato piuttosto ampio, un augurio di prosperità e di benessere per l’anno agrario che sta per cominciare, in cambio di uova, dolci, vino, farina o anche denaro. Questa questua, che con il benessere di oggi si è talora trasformata in un vero e proprio giro di merende, con una tavola imbandita che attende le maschere presso ogni fattoria o contradina, si può vedere in azione ancora oggi nella Tracia bulgara, nelle campagne macedoni, ma anche da noi sulle Alpi, a Valfloriana nel Trentino, per esempio, o nella Coumba freida valdostana, e nel paese basco francese, nella valle della Seule. E chi sono, queste maschere? Un po’ ovunque, nell’amplissimo areale descritto qui sopra, si comincia con i rappresentanti di un mondo pastorale ancestrale, un antico gregge che ritorna da un lungo oblio nei grandi spazi selvaggi che circondano il villaggio, rivestito di velli di pecora, corna o lunghe barbe, e annunciato immancabilmente dal clangore dei campani che portano legati in vita. Così, in lingua basca, nella Navarra spagnola, questi personaggi sono detti joaldunak cioè “scampanatori” proprio come nell’entroterra fiumano, in Croazia, personaggi dal costume in tutto simile sono detti zvončari, che vuol dire la stessa cosa: “scampanatori”. E qui, seguendo come Arianna il “filo del nome” che lega fra loro i personaggi carnevaleschi di mezza Europa, si possono fare delle scoperte interessanti. Per esempio, nome occulto degli scampanatori, degli zvončari croati è quello di stari, i “vecchi”, proprio come il “vecchio” e la “vecchia” protagonisti, con una evidente allusione agli antenati, e quindi al mondo dei morti, del carnevale della valle dei Mòcheni. Laddove il “vecchio” indossa un cappello di capra a punta, ornato di nastri, ed ha il viso spalmato di una crema di nerofumo molto unta, di cui è impregnato anche il lungo bastone che reca in mano: la stessa maschera, fin nel più minuto dettaglio, del protagonista carnevalesco che troviamo a Prats de Mollo la Preste, un villaggio dei Pirenei occidentali, nella Catalogna francese, dove però si chiama “l’orso”. E di orsi e cacce all’orso, in occasione del carnevale, se ne trovano nelle valli occitane del Piemonte, in valle di Fiemme fino a non molti anni fa, nella Mitteleuropa asburgica e in gran copia lungo tutti i Balcani. Prendiamo un’altra strada. Chi non conosce i famosi mamuthones di Mamoiada in Sardegna, che sono a loro volta degli scampanatori carnevaleschi androgini e vegliardi? Basterà uno sguardo all’atlante linguistico per rendersi conto che il loro nome misterioso altro non è che “bamboccione” o “pupazzo”, lo stesso che nelle stesse zone si dà agli spauracchi piantati in mezzo ai campi per spaventare gli uccelli. Ma il nome dello spauracchio coincide con quello del personaggio carnevalesco anche in tutta una serie di situazioni alpine, ovunque questo si presenti con forme varie della radice mato: matòch, matòcio, matazìn… Un pupazzo piantato in mezzo al campo di orzo o di grano, ovvero un covone personificato e in qualche modo spiritualizzato, che ci riporta direttamente alla remota radice agraria di questi culti: tanto è vero che, al culmine del corteo carnevalesco, quale vero e proprio atto centrale del rito che si compie, accanto al quasi obbligatorio matrimonio-per-finta, troviamo una aratura rituale, che si riscontra ancor oggi, anche questa dai Balcani, alle Alpi, dalla Sardegna alla Navarra…
Ce n’è più che abbastanza, come si vede, per autorizzare l’idea di una ricerca europea che vada a vedere, a verificare, a controllare, seguendo quante più possibili di queste piste di significati, di analogie, di sorprendenti identità di personaggi e di azioni, da un capo all’altro del continente. L’idea, partita dal Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di San Michele all’Adige, sulla scorta di una lunga esperienza a contatto diretto con la grande ricchezza della tradizione carnevalesca ai piedi delle Dolomiti, ha ottenuto il consenso, per la sua prima fase, di quattro grandi istituzioni museali di altrettanti paesi europei: il Museo Etnografico di Zagabria in Croazia, il Museo Nazionale Etnografico di Sofia in Bulgaria, il Museo Etnografico Nazionale di Skopje in Macedonia, e il Musée des Civilisations de l’Europe et de la Mediterranée di Marsiglia in Francia.
Il progetto, denominato Carnival King of Europe/Carnevale Re d’Europa, ha ottenuto il supporto del Dipartimento Cultura dell’Unione Europea per il biennio 2007/2009, e ha finora prodotto alcuni importanti seminari di studio, un sito internet www.carnivalkingofeurope.it, la ricerca sul campo nei cinque paesi coinvolti e una mostra inaugurata a San Michele all’Adige (22 novembre 2008), e poi trasferitasi a Zagabria (15 gennaio 2009), a Sofia (19 marzo 2009), a Skopje (16 maggio 2009) e prossimamente a Marsiglia.
Un vero e proprio viaggio, che ancora continua, alla scoperta delle radici culturali dell’Europa, forse ancor oggi il più misterioso e il meno conosciuto, dal punto di vista etnologico, dei cinque continenti.
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Carnival King of Europe – Carnevale re d’Europa è un progetto promosso dal Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina e sostenuto dal Programma Cultura Unione Europea. All’iniziativa, che si tradurrà in una campagna di ricerca, una mostra, alcuni incontri seminariali e un convegno, hanno aderito quattro importanti musei etnografici nazionali di altrettante nazioni europee: Francia, Croazia, Bulgaria e Macedonia. Ecco quindi, insieme al nostro Museo di San Michele all’Adige, il nuovissimo Musée des Civilisations de l’Europe et de la Mediterranée di Marsiglia, e gli autorevoli Etnografski Muzej di Zagabria in Croazia, di Skopje in Macedonia e di Sofia in Bulgaria, rimasti miracolosamente illesi dagli sconquassi dello scorso decennio nei Balcani, e anzi centri del tutto attivi di ricerca, di attività didattiche e di cultura, né più e né meno che da noi. A questi partner ufficiali, direttamente investiti della responsabilità del progetto, se ne sono aggiunti altri quali, tra gli altri, il Museo della Vita e delle Tradizioni Popolari Sarde di Nuoro e il Museo Etnografico dell’Alta Murgia di Altamura e, ancora dall’estero, lo Slovene Ethnographic Museum di Lubiana. Scopo del progetto è quello di allargare i confini dell’interpretazione etnologica del carnevale a una prospettiva propriamente europea, forzando almeno un po’, ad esempio, le categorie correnti del “carnevale alpino” o “balcanico”, per ricollocare tutte queste festività di metà/fine inverno all’interno di un grande affresco che abbracci l’intero continente dal Paese basco e ai Pirenei fino alla Tracia, passando naturalmente per le Alpi e per l’Italia peninsulare. Perché altrimenti, le figurazioni, i simboli, le maschere che figurano nel rito sarebbero le stesse, mutatis mutandis, sopra un areale così vasto? Stesse sono, ad esempio, le figure demoniache, vestite di pelo di capra, ornate di corna, sporche di nerofumo nonché cinte degli inconfondibili campani di bronzo, che un po’ ovunque inaugurano il corteo. Stessi sono gli ubiqui figuranti biancovestiti, con il cappello a cono adornato di nastri multicolori, protagonisti del seguito fattosi benefico dell’invasione carnevalesca. Stesso è il corteo nuziale per finta che si configura quasi ovunque come l’elemento centrale della processione carnevalesca, insieme ad altri accessori: l’aratura per finta, la caccia all’orso, oltre naturalmente al processo, alla condanna e alla lettura del testamento del “personaggio” Carnevale, e finalmente all’erezione di una grande pira per un rogo purificatore...
Il Museo di San Michele non è nuovo a questo genere di imprese, che cercano di ritrovare lo sguardo comparativo di James Frazer, l’autore del Ramo d’Oro: così, nel 2006, una mostra Demoni pastori e fantasmi contadini. Le mascherate invernali dalle Alpi orientali ai Balcani, curata insieme all’antropologo Cesare Poppi, inaugurava questo settore di interessi, mentre un film di Michele Trentini, 3 carnevali e ½, prodotto dal Museo stesso e realizzato tra il 2006 e il 2007 in quattro località del Trentino (Valfloriana, Grauno, Palù del Fersina e Varignano) veniva insignito in Piemonte del Premio Nigra 2007 per l’antropologia visiva. Il 30 novembre 2007, a Trento, si è tenuto il Forum inaugurale di Carnival King of Europe, per programmare una serie di iniziative che interesseranno i cinque paesi coinvolti fino al 2009, e che verranno rese pubbliche tramite il sito www.carnivalkingofeurope.it , in previsione di qualcosa di ancora più ampio, un vero e proprio “atlante” del carnevale europeo...
“Carnevale re d’Europa” è certamente uno slogan accattivante, ma è in fondo anche qualcosa di più: per un continente da sempre alla ricerca della ricomposizione di una propria unità politica e anche culturale, il vecchio furfante che assurge ciclicamente al soglio regale per poi essere subito sacrificato alla vigilia di ogni primavera può essere con ogni probabilità considerato oggi, in fin dei conti, uno dei pretendenti più credibili alla corona continentale: certamente, uno dei suoi aspiranti più antichi, indefettibili e longevi. Il che, per un’Europa del dopo-muro, che deve ancora imparare a conoscersi e a riconoscersi, certamente non è poco.
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